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Questa è Italia | Mondo, la newsletter che viaggia per il mondo attraverso le voci di scrittori e scrittrici che lo hanno raccontato e dei personaggi che lo hanno abitato.
Prima di iniziare:
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Tōkyō
“Mondo di sofferenza:
eppure i ciliegi
sono in fiore”
(Haiku di Issa)
È possibile avere un posto preferito che sia un luogo immaginario di una città mai visitata?
Il mio si trova a Shinjuku, incastrato in una stradina tra bettole, izakaya, karaoke e love hotel, lontano dai grattacieli e dagli snodi ferroviari, dove si arriva solo a piedi, spesso già brilli. È la Taverna di mezzanotte (di cui c’è anche la serie Netflix: Midnight Diner: Tōkyō stories, che rende bene le atmosfere del posto), apre appunto a mezzanotte e chiude all’alba, c’è un menù fisso con zuppa di maiale, birra e sakè, ma se hai voglia di qualsiasi altra cosa – wurstel rossi, curry del giorno prima, ostriche fritte o frittata dolce – puoi chiederla e, se ci sono gli ingredienti, lo chef senza nome con una cicatrice che attraversa l’occhio sinistro te la prepara al momento.
Ci sono pochi posti attorno al bancone, ci si siede accanto a chi capita, a volte si prende ispirazione dall’ordine del vicino sconosciuto, a volte si offre o si riceve un giro di sakè. Può capitare di ritrovarsi seduti insieme a clienti abituali o di passaggio, a gestori di karaoke ed escort stanche, a mangaka e ideatori di videogiochi, a membri della Yakuza e aspiranti attori. Ma soprattutto ci si ritrova ogni notte in un vortice di brevi storie quotidiane che attraversano le vite degli avventori e che vengono messe sul banco, facce che piangono e che ridono, incontri inaspettati e sparizioni, innamoramenti d’altri tempi e ricordi di grandi passioni, piccole cose che ogni sconosciuto può ascoltare con le bacchette in mano.
Fino al 1868, quando divenne residenza dell’imperatore, il nome di Tōkyō era Edo. Ed è a Edo, nel 1815, che il cartografo Inō Tadataka – oggi ricordato nel Museo che porta il suo nome nella prefettura di Chiba - concluse la spedizione che lo aveva portato a viaggiare per dieci anni lungo il Giappone per mappare il paese per la prima volta. Alle sue peregrinazioni è ispirato il protagonista di Jiro Taniguchi in Furari - Sulle orme del vento che, con la scusa di voler calcolare la misura di un grado di latitudine, cammina senza meta per Edo, fondendosi con la natura e con gli animali che incontra, recitando vecchi haiku, in un paesaggio che solo la delicatezza delle matite di Taniguchi è in grado di raccontare. Nelle sue passeggiate compra una tartaruga per l’Hojoe, cerimonia tradizionale nella quale vengono liberati animali in cattività, che lui libera nel fiume Nihombashi seguendone il percorso sott’acqua; visita un tempio in cui hanno seppellito i resti di una balena alla quale è stata dedicata una poesia settecentesca; si siede a guardare le lucciole sulle sponde del fiume Okawa e ne porta qualcuna a casa senza rendersene conto; chiede in prestito le ali a una libellula rossa e volteggia con lei sopra la città.
Mi accorgo solo ora che sto scrivendo questa puntata proprio nel periodo dell’Hanami in cui a Tōkyō si celebra la prima fioritura dei ciliegi. Anche il sakura sul mio balcone sta iniziando a fiorire. Dovrei fare come il nostro protagonista. Sedermi sotto di lui e parlargli. E aspettare che mi risponda.
Nel 1994 Igort convince se stesso e gli editori della Kodansha che nella vita precedente era stato giapponese.
Inizia così un viaggio infinito nel paese sognato da quando iniziò a disegnare che diventa un libro (anzi tre!) che racconta l’inseguimento di un sogno.
Nel primo dei Quaderni giapponesi - Un viaggio nell'impero dei segni Igort inizia a vivere in un piccolo appartamento di 14 mq nel quartiere antico di Bunkyo-Ku fatto di templi, santuari e giardini, dorme su un futon e impara a disegnare le pagine al contrario, da destra a sinistra. Seguendolo scopriamo la strada per la scuola zen Rinzai e per il santuario di Nezu, impariamo il simbolismo dei crisantemi e abbracciamo alberi secolari, sfogliamo libri di Mishima e incontriamo i più mitici mangaka.
Ci consente di camminare effettivamente nel sogno promesso all’inizio, l’inimmaginabile in una città di oltre 14 milioni di persone:
“Quella città aveva il dono di calmarmi, di lasciare depositare sul fondo la sabbia della mia esistenza.”
Agli amanti di Totoro, Kiki, Ponyo e Porco Rosso, Igort riserva le ultime pagine del volume per mostrare l’incontro con Hayao Miyazaki allo studio Ghibli, gli animatori che lavorano a mano, la scrivania di Hayao, i quaderni sui quali nascevano le idee per i suoi capolavori.
Purtroppo nel cercare i link per la puntata mi sono imbattuta in siti come questo che vi sconsiglio di aprire se siete a rischio shopping compulsivo per cose imprescindibili come il teatrino di carta di Totoro o le agende di Kiki e Jiji.
Gli ospiti del mese
Yaro Abe, edito da Bao Publishing
Jiro Taniguchi, edito da Rizzoli e Coconino Press
Igort, edito da Coconino Press e Oblomov
L’ospite inattesa
L’ospite di oggi è Giorgia Sallusti (Roma, 1981), libraia, yamatologa, traduttrice. Laureata in lingue e civiltà orientali alla Sapienza, nel 2015 ha aperto Bookish, libreria indipendente specializzata in letterature del Nord Africa, del Medio e dell’Estremo Oriente. È autrice e voce del podcast Yamato. Un viaggio nel Giappone che non vi hanno mai raccontato prodotto da Emons record. Ha tradotto Io, lui e Muhammad Ali di Randa Jarrar per Racconti edizioni, e Ace di Angela Chen per Mondadori. È la curatrice di Genere e Giappone. Femminismi e queerness negli anime e nei manga (Asterisco). Ha scritto A Tokyo con Murakami (Giulio Perrone editore). Scrive di libri per Il manifesto e Altri animali, rivista di cui è anche editor, occupandosi di Giappone, oriente e femminismi.
Giorgia ci regala un testo intitolato “Una casa a Tōkyō”, viaggio tra le periferie della città e tra le sue trasformazioni architettoniche e antropologiche.
Sono cresciuta tra le case popolari di un quartiere di periferia di Roma. I quartieri periferici che di rado incontrano le traiettorie dei turisti sono gli spazi che attirano il mio sguardo per primi, incanalando il mio interesse verso la ricerca tra gli interstizi urbani, le lingue, le culture. Se ti vuoi fare un'idea di come se la passa una città «devi andare a vedere i suoi margini. Il centro ti dirà che va tutto bene. La periferia ti dirà il resto» scriveva Philip Ó Ceallaigh. Tōkyō non fa eccezione.
Molti centri e molte periferie insieme, la capitale giapponese è un tributo al trasformismo e al cambiamento come tensione verso il futuro. Si rimette in piedi ogni volta che è stata buttata giù, dopo il terremoto, dopo la guerra, dopo la bolla economica. Se l’università di Kyōto è quella che produce più premi Nobel per le scienze, è a Tōkyō che si riversano metà degli studenti del Giappone. È nella capitale la più grande concentrazione di università, case editrici, etichette discografiche e artisti. La classe dirigente del paese è ancora sfornata – e formata – dall’Università di Tōkyō, la vecchia Università imperiale. La città si espande sopra e sotto terra, macinando suolo intorno a lei, costretta a fermarsi soltanto dal confine invalicabile del mare. Claude Lévi-Strauss diceva che il futuro di Tōkyō sarebbe stato sul fiume Sumida, e così l’edilizia ha seguito l’antropologia: sulle rive del fiume sono cresciuti i grattacieli, incorniciando anche l’affollata riva di Asakusa, su un terreno che prima era occupato dal birrificio dell’Asahi tanto odiato dallo scrittore Nagai Kafū perché rendeva sgradevole il paesaggio.
Le periferie, quindi. Lontana dai grattacieli che lambiscono le nubi, e dalle graziose ville d'ispirazione tradizionale, l’edilizia residenziale di massa degli anni Sessanta chiamata danchi è un affascinante esperimento interculturale che fonde il modernismo occidentale e sovietico con elementi tradizionali giapponesi. Un tempo simbolo di un nuovo stile di vita «modernizzato», da allora le case danchi sono andate degradandosi per mancanza di fondi e manutenzione. Le attuali condizioni di vita in questi complessi non sono adatte ai residenti, in larga parte molto anziani, e anzi vedono al loro interno il proliferare di kodokushi: morti silenziose e inosservate, scoperte magari dopo mesi, di persone rimaste a vivere sole e senza cura.
A parte una dozzina di lotti edificati a quattro piani costruiti negli anni Venti (che comunque non ebbero grande successo), a Tōkyō esisteva solo una tipologia abitativa comune chiamata nagaya: lunghi edifici in legno, solitamente alti due piani, che i ricchi mercanti costruivano sui propri terreni e poi affittavano. Gli appartamenti a nagaya erano costituiti da una o due stanze con tatami, con una superficie totale di circa venti metri quadrati. Cucine e bagni erano di norma condivisi e situati sul corridoio a ogni piano. Il signor Hirayama in Perfect Days, il film di Wim Wenders, mi sembra proprio rinunci alla dimensione mondana contemporanea e alle sue afflizioni, quasi un buddhismo laico. La sua casa la stanza da bagno proprio non ce l'ha, e lui lavora ogni giorno lavorando di spazzola e sapone sui gabinetti pubblici della città, bagni stupendi, come quelli di Kuma Kengo e Ban Shigeru, che fanno parte del progetto «TTT The Tokyo Toilet». Hirayama dice una battuta alla nipote, «La prossima volta è la prossima volta. Adesso è adesso.» (今度は、今度。今は、今。) che ricorda l'ichi-go ichi-e (一期一会, un momento un incontro), espressione dell'irripetibilità del momento presente (e del suo valore come unico). Ichi-go ichi-e è un'espressione attribuita a Sen no Rikyū, maestro del tè e dello zen, e consapevole di quella che in giapponese si chiama mujōkan, la transitorietà di questo nostro mondo contingente. Tōkyō è lo specchio di questa transitorietà.
Nell’agosto del 1945, quando i bombardamenti rasero al suolo il diciannove percento di tutte le case di Tōkyō, le nagaya avevano cessato di esistere. Tōkyō bombardata ce la ritroviamo nella memoria di Fosco Maraini, che ci arriva da Nagoya dove aveva passato due anni chiuso in un campo di concentramento assieme alla moglie Topazia e alle bambine Dacia, Yuki e Toni. Entra in città ai primi di settembre accolto da uno spettacolo desolante e terribile. A Marunouchi restavano in piedi soltanto alcuni grandi edifici di cemento armato, e si diceva fosse perché gli alleati li avessero appositamente risparmiati per avere pronti gli uffici da cui avrebbero governato il paese durante l’occupazione. Del resto delle case «non restavano neppure le montagne di macerie delle città tedesche; il legno si era consumato in fiamme e fumo lasciando un terreno cosparso di polvere nera e brace spenta. L’occhio spaziava per ettari ed ettari d’un deserto bigio, dove ogni tanto trovavi dei cocci, degli strani sassi verdi (mucchi di bottiglie fuse), dei pezzi di latta contorta ricoperta appena da qualche rampicante fiorito, che aveva fatto in tempo a germogliare fra un bombardamento e l’altro».
Con l’arrivo del tempo della pace fu chiaro che bisognava ripensare il modello abitativo. La maggior parte delle unità danchi degli anni Sessanta e Settanta misura un totale di quarantuno metri quadrati, con micro-ingresso genkan, tre stanze con tatami divise da partizioni mobili fusuma e una zona per pranzo e cucina con accesso diretto a un piccolo bagno. Nasce un modo di dire, hana yori danchi preso dall’originale proverbio hana yori dango, che significa «preferire i ravioli ai fiori» – ossia, preferire la sostanza all’estetica. Dopo gli anni Ottanta l’entusiasmo per i danchi si affievolisce, e da ormai una ventina d’anni sono in opera le demolizioni dei vecchi palazzi. Molti ancora resistono, e se oggi chiedeste a un qualsiasi passante di Tōkyō cosa sia un danchi, vi potrebbe rispondere qualcosa come «vecchi condomini per persone estremamente svantaggiate», legando il fatto di vivere in una casa popolare a una sorta di pregiudizio in partenza. La maggior parte delle persone esita ad ammettere di avere amici o parenti che vivono o hanno vissuto nei danchi, anche se a Tōkyō ne esistono ancora. Molti danchi sono stati riconvertiti in alloggi sociali e ora ospitano anziani e famiglie a basso reddito, migranti che non hanno una posizione solida nel paese, ed ex yakuza usciti dal giro. I terreni su cui sorgevano i danchi demoliti sono pronti a nuove ricostruzioni, come aveva profetizzato il suocero palazzinaro a Hajime in A sud del confine, a ovest del sole, fra terreni liberi che sembrano denti mancanti di una bocca. «Prima c’erano antichi palazzi o vecchi edifici che sono stati abbattuti. Ultimamente i prezzi dei terreni sono saliti all’improvviso e così le vecchie costruzioni hanno cominciato a non rendere più come una volta» racconta al genero. Perché gli inquilini che possono pagare sono sempre meno.
Nelle puntate precedenti abbiamo parlato e disegnato di Cile, Lisbona, Cuba, Brasile, Palestina e Israele, Istanbul e Messico.
Nella prossima puntata parleremo e disegneremo di Canada.
Se hai suggerimenti di luoghi, libri e autori in cui Italia | Mondo potrebbe fare tappa, o se vuoi illustrare la prossima mappa puoi scrivermi a fra.ceci@hotmail.it
Mi chiamo Francesca Ceci e sono autrice e sceneggiatrice di graphic novel e libri illustrati - Badù e il nemico del sole, Possiamo essere tutto, 51 cose da fare per essere felici - e collaboratrice, oggi o in passato, di riviste letterarie tra cui Altri Animali, Flanerì, I libri degli altri e Singola.
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